martedì 22 aprile 2008

LA RICERCA DELLA GOVERNANTE Capitolo 5

Tre giorni fa, la mia governante mi ha svegliato annunciando una buona novella. Come sempre è entrata in camera, ha alzato la serranda e ha poggiato sul letto il vassoio con la colazione (si faccio colazione a letto, mbè?):«Tra quindici giorni me ne vado, ho trovato nuovo lavoro». L'eco delle sue parole ha rimbalzato per qualche minuto tra le pareti della stanza e nel mio cervello appena riavviato. Elaboro la tragica notizia mentre a fatica cerco di svegliarmi. Il risultato è che il mio umore, già solitamente pessimo di prima mattina, esplode come un vulcano. Inizio a eruttare parole di slealtà e di menefreghismo. Minaccio di non pagarle la buonuscita se non mi da il tempo di trovare un'altra persona. La mando via dalla stanza urlando. Prendo il telefono e chiamo il mio avvocato, al quale spiego concitatamente la situazione. Voglio denunciarla per abbandono del posto di lavoro, abbandono di disabile, omissione di soccorso, alto tradimento (non c'è il plotone d'esecuzione per questo reato?) o qualsiasi altra aggravante si possa inventare per l'occasione. L'avvocato spegne sul nascere il fuoco della mia voglia di giustizia o quasi:«Potrebbe andarsene anche oggi stesso senza alcun preavviso, praticamente ti sta facendo un favore a darti quindici giorni» e continua rincarando la dose «Anche se la denunciassi, i giudici danno sempre ragione al lavoratore in questi casi». Nulla da ridire. Il diritto del lavoratore è sacro. Ma le ragioni di un disabile non possono andare a farsi fottere. Non sto parlando solo di ragioni pratiche, ma anche e soprattutto di ragioni psicologiche. La ricerca di una persona a cui uno, volente o nolente, si deve affidare in tutto e per tutto, è un'operazione delicata. Va affrontata con i tempi giusti, o si rischia di mettere in casa una persona non adatta e, talvolta, anche pericolosa. Mi sorprende che non ci sia una legge che tutelI i disabili di fronte a casi del genere. Basterebbe una piccola clausola contrattuale che stabilisse un tempo di almeno due mesi per ricerca sostituzione adatta, in caso di prematura rottura del rapporto lavorativo. Purtroppo non siamo un paese civile. C'è da combattere per qualsiasi cosa. Per fortuna ho accumulato una certa esperienza in fatto di ricerca del personale. Ho delle domande chiave dalle cui risposte capisco chi ho davanti. Chiamo alcuni numeri che ho da parte e riesco a organizzare tre appuntamenti praticamente immediati. E immediatamente prendo buca. Al primo non si presenta nessuno. E' una signora con ottime referenze che inseguo da tempo, e che presumo continuerò a inseguire. La chiamo tutta la mattina, ma trovo la segreteria. Verso le tre del pomeriggio vedo una ragazza ucraina. Sono cinque anni che vive in Italia. Parla bene la nostra lingua, requisito fondamentale richiesto dal tipo di lavoro, e ha sempre prestato servizio dalla stessa donna anziana come badante. Ma che termine è 'badante'? Un cane si tiene a bada, un cavallo si tiene a bada. Un essere umano no. 'Prendersi cura' è il termine giusto. Ci si prende cura di una persona avanti con l'età. Badante, oltre che offensivo è anche un repellente modo di esprimersi. Si associa bene al nostro mondo burocratico. Preciso che non ho bisogno di una badante, ma di una governante che si occupi della casa, della cucina e che mi aiuti, una volta per notte a fare pipì. Nonostante viva in Italia da tanto, capisco che non sa cucinare (chissà cos'ha mangiato la vecchina negli ultimi anni). Ma il suo problema principale è che se si sveglia la notte poi non si addormenta più. Mi guarda come se aspettasse da me una soluzione al suo problema. Io ricambio con lo stesso sguardo e dico:«Il mio problema principale è che se non faccio pipì non mi risveglio più». Ci salutiamo. Mentre attendo l'arrivo del terzo pretendente (stavolta si tratta di un uomo), il telefono inizia a squillare in continuazione. Come per magia tutti sanno che cerco una governante. La cosa divertente è che raramente riesco a parlare con la persona che effettivamente cerca il lavoro. Chi telefona è sempre il tramite. Un'amica, la sorella, un parente. Di solito perchè il candidato non parla bene l'italiano o non ha esperienze lavorative. Il bello è che anche all'appuntamento si presentano con l'amica, la sorella e il parente che cercano in tutti i modi di non farlo parlare. Ho fatto colloqui di lavoro senza neanche sentire la voce della persona interessata. Suonano alla porta. E' Manuel, un ragazzo sud-americano. E qui c'è da fare una premessa: le donne sud-americane in casa sono incredibilmente brave. Cucinano bene, tengono casa pulita e ordinata e non si stancano mai. Gli uomini, per quanto riguarda la cucina non sanno neanche stendere una tovaglia a tavola, l'aspirapolvere è un mistero della tecnologia e, dopo una settimana di lavori domestici, sono pronti per il ricovero. Lungi da me qualsiasi pensiero razzista, questo è un dato di fatto dettato dall'esperienza. Tutti gli assistenti sud-americani che ho avuto sembravano fatti con lo stampino. Manuel è in Italia da cinque anni. Parla un italiano mediamente comprensibile e non ha il permesso di soggiorno. Cosa che già di per se basterebbe a metterlo fuori lista possibili aiutanti. Vado avanti lo stesso con l'intervista e scopro che ha fatto il badante (ci mancherebbe) per un'anziana signora. «E che cosa cucinavi per la signora?» domando immaginando già la risposta. «Una pasta, una minestrina, tutto» risponde ridendo. Lo ringrazio e lo lascio con la promessa che ci penserò su. E per due o tre minuti ci penso. Finchè non suonano di nuovo. L'ultimo appuntamento è con una signora lettone. Si chiama Nina e parla un italiano impeccabile, quasi privo di accento. E' in Italia da dieci anni e ha già lavorato con disabili. Ha il permesso di soggiorno. Risponde alle mie domande con l'arguzia e le movenze di una vecchia matrona romana. Mi sembra di sognare. Sa cucinare, sa prendersi cura della casa e di me, non ha problemi a svegliarsi la notte, mi chiede subito quanto dista il mercato più vicino. Più parla più acquista punti. Le mostro la casa e la sua stanza con bagno. Le piace. Anche lo stipendio le sta bene. Per me il posto è già suo, vorrei avere un contratto da farle firmare seduta stante. Torniamo in camera. Si siede e lancia un fendente che, in un attimo, disintegra la mia innocente euforia :«Il lavoro veramente servirebbe a mia sorella». La guardo ammutolito. E' la prima volta che mi trovo in una situazione del genere. L'unico pensiero che riesco a formulare mi esce in dialetto foggiano:«E purtm' a soreta!»...nuove influenze.     

sabato 5 aprile 2008

ASSISTENZA AEROPORTUALE Capitolo 4

L'estate scorsa sono stato in Germania per un'operazione. Dopo aver trovato una vantaggiosa offerta su internet, ho acquistato tre biglietti Roma- Amburgo con una compagnia di bandiera tedesca. Sono partito con il mio assistente Miky e Alessia, una mia cara amica italo-tedesca, che si è gentlmente offerta di accompagnarmi per farmi da interprete. Nell'atto di acquistare i biglietti ho fatto presente, come del resto faccio sempre, che uno dei passeggeri aveva bisogno di assistenza per salire sull'aereo. Non avevo scelto il momento migliore per volare. Erano giorni che il telegiornale apriva con le ultime notizie sulla situazione dell'aeroporto L. Da Vinci di Roma. A causa dei troppi viaggiatori e di vari sabotaggi ai sistemi di smistamento bagagli,  l'aeroporto era andato in tilt. Ritardi sulle partenze, file chilometriche ai check in, sistematica perdita o mancato imbarco del bagaglio, interminabili ore di attesa per la riconsegna agli arrivi. Come al solito facciamo la nostra bella figura di inefficienza, per essere educati, con il mondo intero. La mattina della partenza decido, in accordo con i miei compagni di viaggio, di muovermi da casa con largo anticipo. Tre ore prima dell'orario di decollo. Per non correre rischi, visto ciò che ci aspetta nell'inferno dantesco aeroportuale. Arriviamo in meno di mezz'ora. C'è il delirio. Entriamo e cerchiamo i banchi Lufthansa. La fila fa paura. Anche per fare ingresso nella zona check-in c'è fila. Per fortuna si avvicina un'inserviente munito di radio, che ci scorta fino al banco della businness class facendo spostare i poveri dannati in fila. Consegnamo i bagagli e la signorina mi fa attaccare sulla carrozzina un adesivo, con i dati del volo e la destinazione. Come quelli che mettono sulle valigie, visto che la sedia andrà a finire nella pancia dell'aereo. Ritiriamo le carte d'imbarco, passiamo il controllo e arriviamo al nostro "gate" in meno di venti minuti. Mai prima d'ora ero stato così veloce, infatti mancano più di due ore al decollo. Occupiamo due sedili dove appoggiamo le borse. Mi lancio subito alla scoperta dell'incantevole sbrilluccichio dei negozi del duty free, nella più totale accessibilità a parte la rallentante moquette. Dall'alcohol alle sigarette, dai profumi alle cravatte, dagli occhiali alle magliette delle squadre di calcio. Ne abbiamo per tutti i gusti. Si inizia sbeffeggiando ironicamente l'opulenza dei negozi e l'inutilità di ciò che vendono. Si finisce comprando, inebetiti dalle luci, dai colori e dalla convinzione che al duty free convenga. Non è vero. A parte le sigarette costa tutto uguale, se non di più. Cerco una maglietta da calcio per mio nipote, ma non hanno la taglia per bambini di dieci anni. Compro (si compro!) un paio d'occhiali da sole Puma e mi siedo, o meglio, prendo posto al bar-pizzeria-fast food per fare colazione. La seconda. Pizza di plastica, patatine di gomma e cornetti imbustati. Ordino un cappuccino, che mi sembra l'unica cosa commestibile. Alessia e Miky si avventano su una fetta di pizza, incuranti del pericolo. Finito lo spuntino, visitati tutti i negozietti, compriamo giornali e riviste passa tempo di quelle che si leggono solo nelle sale d'attesa e torniamo alla base. Poco lontano noto un altro tetraplegico in carrozzina insieme a una ragazza bionda. Dopo aver vivisezionato giornali e riviste arriva il momento dell'imbarco. L'altro disabile viaggia sul mio stesso volo. Lo vedo sparire dietro la hostess, accompagnato dalla ragazza e da un addetto all'assistenza. Mi avvicino alla porta d'imbarco costeggiando la fila dei passeggeri 'normali' e consegno le carte alla hostess che mi guarda interdetta: «Ma lei ha richiesto l'assistenza?». 
«In che senso scusi?» chiedo confuso.
«Al check in ha fatto presente di avere bisogno di assistenza?».
«Perchè non si vede?».
«Aspetti un secondo». Si volta stizzita e raggiunge una collega dietro il banco. Prende il telefono e parla per un minuto. Attacca e torna all'attacco: «Sa, siete in due sullo stesso volo. Ci vuole solo un po' di pazienza».
«Rischiamo di bloccare il terminal con questo evento» rispondo ironicamente. Lei incassa e senza degnarmi di uno sguardo, inizia le operazioni d'imbarco per gli altri passeggeri. Arriva l'addetto, toglie i freni alla carrozzina, acchiappa le manopole di spinta e parte, accompagnandosi con un sonoro:«Andiamo?». Superiamo una grande porta a vetri e arriviamo davanti a due rampe in discesa libera. Ripidissime. Contro ogni regola imparata sin'ora, e sono undici anni che studio da disabile, 'l'assistente' gira la carrozzina di 180 gradi e inizia a scendere come se impedisse a  un pesantissimo pianoforte di scivolare via. Faticando il doppio e facendomi venire un paio di contratture al collo. Come se non bastasse. Il modo corretto di affrontare una discesa è impennare la carrozzina sulle ruote grandi, e scendere lentamente e omogeneamente senza faticare più di tanto. Lo faccio notare all'assistente che mi spiega il motivo dell'anomalia, a parole sue:«Qualche giorno fa ce n'è cascato uno».
«Che cosa vuol dire 'ce n'è cascato uno'?» lo fulmino con lo sguardo. Non coglie e continua:
«Si, stava scendendo come dici te e gli è scappata la carrozzina. Ammazza che botto!» conclude ridacchiando. Lo fisso senza dire nulla. L'istinto è omicida però. 
«Così hanno deciso che dobbiamo scendere in questo modo, è più sicuro». E' così sicuro che, se il tipo scivola io mi faccio un'altra lesione midollare. Sbuchiamo davanti al veicolo che ci porterà all'aereo. Si tratta di un furgoncino con un ampia cabina passeggeri sopraelevata, a cui si accede mediante una pedana elettrica. Cabina che, una volta sotto l'aereo, sale come un ascensore fino al portellone. L'altro ragazzo è già sulla pedana insieme alla ragazza. Altri due addetti parlottano tra loro. Uno sta urlando: «Hai capito che quello è un pezzo di merda?» mi prende in consegna e mi carica sulla pedana continuando a sbraitare «Cambia i turni come vole. Lui al fresco e noi qui a morì de caldo, mortaccisua!». Si posiziona accanto a me e fa segno a Miky di salire. Ora siamo due disabili e tre cristiani su un sollevatore che di norma ne porta uno e uno. Infatti non si muove. Lui urla ancora, perforandomi un timpano. Scende e la pedana si anima, portandoci in cima tra sonori cigolii. All'interno della cabina ci sono delle rotaie dove agganciare le carrozzine per sicurezza, ma mancano i blocchi e le cinture di sicurezza. Metto i freni e mi aggrappo a Miky. Gli addetti continuano a parlottare fregandosene altamente. Almeno il cretino ha smesso di urlare. L'altro disabile ride divertito. Io darei fuoco al veicolo con tutti gli assistenti. Quantomeno avrebbero un motivo valido per urlare. Finalmente ci troviamo davanti al portellone dell'aereo. Un ponticello elettrico unisce la cabina del furgoncino all'aereo. Sembra l'abbordaggio di una nave di pirati disabili. Gli assistenti mi sistemano accanto una sedia stretta di metallo, con due piccole ruote di gomma dietro e una pedana per i piedi davanti. E' la sedia standard che si usa per salire a bordo e passare nel corridoio in mezzo ai sedili. Solo che in tutta Europa è munita di morbide imbottiture sullo schienale e sulla seduta, in Italia no. Ti becchi due belle lastre di metallo che solo a guardarle ti si apre una piaga da decubito. Mi trasferiscono sullo strumento di tortura, basculano leggermente sulle ruote posteriori e ci infiliamo nell'aeromobile. Arriviamo alla fila di posti che ci appartengono. Di solito mi faccio posizionare sul primo sedile. Quello accanto al corridoio. Per facilità di trasferimento, e anche perchè non mi piace volare. Meno vedo meglio sto.  Mi comunicano però, che secondo nuove normative, devo sedermi accanto al finestrino per non creare intralci in caso di emergenza. Ma se sto fermo e seduto come faccio a creare intralci? Vengo quindi trascinato, perchè oltretutto non è neanche un operazione semplice, nel posto di mia competenza. Miky finisce di sistemarmi. Sono alto e le gambe entrano a malapena nel posto di classe economica. Devo stare attento altrimenti mi buco le ginocchia. Guardo fuori dal finestrino e vedo i miei bagagli sulla pista, mentre li imbarcano. Non mi era mai successo. Finalmente posso controllare come li trattano. Male. Il bagaglio viene letteralmente lanciato sul tapis rouland di carico. Siamo evidentemente in ritardo. Quest'operazione dovrebbe essere già stata effettuata. Non è normale salire sull'aereo prima dei propri bagagli. La voce del comandante irrompe in filo diffusione negli altoparlanti, per il benvenuto e le notizie di rito. Parla in tedesco. Il discorso va avanti per dieci minuti buoni. Alessia ascolta interessata. La sua espressione non lascia presagire niente di buono. Il comandante ora parla in inglese, ma il discorso in questo caso dura due minuti. Guardo Alessia perplesso:«Ma cos'ha detto prima?».«E' incazzato nero», risponde lei «per colpa dei problemi con i bagagli il volo è in ritardo. Ha maledetto gli italiani e ha detto che farà di tutto in volo per recuperare il tempo perduto».
Maledico anch'io gli italiani, mentre la mia normale paura di volare si eleva al quadrato. Cerco di immaginare come uno possa "fare di tutto" per guadagnare tempo, con un aereo di linea pieno di passeggeri. Non mi risulta ci siano scorciatoie in cielo. Si deve andare da un punto a un altro punto in linea retta. Al massimo qualche viratina qua e là. Il volo procede tranquillamente fino all'inizio della discesa, dove capisco il significato di "fare di tutto". Invece di rallentare planando più o meno dolcemente, l'aereo continua a velocità sostenuta picchiando verso il basso. L'atterraggio dura un attimo. Il comandante arriva puntuale. Io riprendo colore. Nel giro di dieci minuti l'aereo si svuota e arriva l'assistenza germanica. Due ragazzoni biondissimi in divisa si avvicinano, uno di loro dice:«Scusi l'attesa, aiutiamo l'altro ragazzo e torniamo da lei». Resto di sasso.  Si sono scusati per l'attesa. L'educazione, quando manca per un po', sembra un sogno. Miky e Alessia si avviano verso l'uscita. Tornano gli assistenti. Con grande attenzione mi trasferiscono sulla sedia da corridoio (morbidamente imbottita) e scendiamo, un gradino alla volta, dalla scaletta dell'aereo. La mia carrozzina mi attende sulla pista, ai piedi della scala. Altro trasferimento e saliamo su un furgone blu. Uno dei ragazzi assicura la carrozzina a delle rotaie simili a quelle del furgoncino italiano, solo perfettamente funzionanti. Mi avvolge con una cintura di sicurezza e mi siede accanto. Ci depositano davanti a una grande vetrata, al di là della quale troviamo i tapis rouland della riconsegna bagagli. I due assistenti ci scortano  e ci lasciano di fronte alle nostre borse, che aspettano ordinatamente allineate. Usciamo dall'aeroporto in meno di mezz'ora dal momento dell'atterraggio. Proprio come succede in Italia.