giovedì 9 aprile 2009

Aggiornamento tragico sul dito infetto: me lo vogliono amputare, o meglio, me lo devono amputare. Eravamo rimasti che l'infezione stava passando e la ferita rimarginando rapidamente. Purtroppo, appena smesso l'antibiotico, il dito si è immediatamente rigonfiato e la ferita ha ricominciato buttare pus. L'amica chirurga ha deciso di pulirla bene, che in gergo vuol dire togliere parti infette a suon di bisturi. Scopriamo così che solo superficialmente sembrava si stesse chiudendo, mentre sotto continuava l'infezione. Per di più l'osso lussato tendeva a fuoriuscire dalla ferita impedendone comunque la guarigione. Così dopo la pulizia, che ha compreso anche l'asportazione di un pezzetto d'osso, ci siamo rivolti alla Professoressa Spagnoli: chirurga della mano e amica di Patricia. Il dito va medicato in ospedale tre volte a settimana. Visto che lei lavora al policlinico Gemelli, lontano da dove abito, per comodità mi manda da un altro chirurgo, il dottor Gentili, che lavora al S. Camillo. Dietro casa. Sono circondato da ospedali. Il nuovo dottore, gentile di nome e di fatto, mi visita e medica il dito infilandoci una garza iodoformica dentro e una pomata antibiotica esternamente. «Non si preoccupi, non è niente. Faccia questa medicazione ogni due giorni e ci vediamo la settimana prossima». Quasi contento me ne torno a casa. Alla prima medicazione il buonumore si disintegra: pus e dito più gonfio. Chiamo il dottore che mi prescrive un antibiotico per bocca. Dopo qualche giorno torno in visita. Non c'è pus ma il dito a me sembra più gonfio ancora, mentre il dottore continua col suo ottimismo:«Sta meglio, continui con le medicazioni e smetta pure l'antibiotico».
«Ma è sicuro che non ci sia un'infezione all'osso?»
«No, stia tranquillo»
«Ma perchè è così gonfio?», incalzo.
«Non è così gonfio le assicuro»
«Allora torno la prossima settimana?»
«Se vuole».
Come 'Se vuole'⁈ Ho una ferita aperta e infetta, che dovrei fare, lasciare che guarisca con queste medicazioni che non sembra funzionino e con l'aiuto del Signore? Chiamo immediatamente la Prof. Spagnoli, che mi invita al policlinico. La diagnosi è tragica: c'è chiaramente un'osteomielite e l'articolazione è distrutta. Scopriamo che l'antibiotico preso non era efficace contro entrambi i batteri presenti e iniziamo con un altro. Sia per via intramuscolare (due punture al giorno) che localmente, iniettandolo direttamente nella ferita. Devo tornare in ospedale per la medicazione ogni due giorni (non una volta a settimana). Dopo sette giorni la situazione non sembra migliorare. Per la prima volta la dottoressa mi prospetta l'eventuale amputazione. La tranquillità e la logica del suo ragionamento fanno visibilmente a cazzotti con il mio sconforto e la momentanea perdita dell'uso della parola. Il dito, cosi com'è ora, è un grave problema funzionale. L'articolazione tra la prima e la seconda falange non esiste più. Una parte mangiata dall'infezione e l'altra asportata per via della lussazione. E' tutto molto gonfio. La circolazione, già scarsa a causa della mielolesione, è totalmente compromessa; di conseguenza l'antibiotico non arriva nella zona periferica (ho il sangue snob, non gradisce circolare in periferia). Per di più il dito, ormai privo dell'articolazione, non rimane piegato insieme agli altri; al contrario, sale dritto verso l'alto. Rendendo ancora più difficili le poche cose che riesco a fare da solo. Se fosse il medio, per intenderci, avrei il vaffanculo azionato perennemente. Se l'infezione cammina, rischio ben più dell'anulare. Tutte motivazioni importanti e reali, ma un dito è sempre un dito, e io voglio essere sicuro al cento per cento. Incasso la notizia e chiedo tempo. Contatto e vedo un' infettivologo, il quale mi prescrive un altro antibiotico (tanto per gradire) e una risonanza magnetica. Prendo appuntamento in una clinica privata dove lavora un conoscente. Il dottore mi fa risonanza e alcune radiografie. Il risultato è pessimo. Anche lui mi consiglia di liberarmi del problema prima che si aggravi. Tra l'altro, conosce la Prof. che mi segue e mi assicura che sono in ottime mani. Arriviamo all'inizio della terza settimana di medicazioni senza il minimo miglioramento. Anzi, a me sembra più gonfio ancora. Assomiglia a una piantina grassa mezza spezzata. Mi convinco anch'io e decidiamo la data. Giovedì 16. Lo facciamo in day-hospital: vado mi operano e torno a casa.
Mi accompagnano due miei cari amici e mia sorella Valentina. Per sdrammatizzare si sprecano le battute, la più gettonata delle quali riguarda l'impossibilità di continuare a suonare il tamburello, e il conseguente lutto che il Salento sarà costretto a osservare per la scomparsa del più dotato musicista. Arriviamo e mi parcheggiano davanti all'entrata della sala operatoria. Dopo qualche minuto si apre una porta da cui esce un'anziana signora accompagnata da una dottoressa in camice verde operatorio. La più bella dottoressa mi sia capitato di vedere da quando frequento ospedali (e nn è poco). Se l'avessi incontrata per strada avrei pensato a una modella. Guarda nella mia direzione e chiede:«Qualcuno deve fare la biopsia?». Avrei voglia di alzare la mano e il pensiero mi fa sorridere. Credo se ne accorga perchè il sorriso che ricambia sa di «Te piacerebbe eh?».
Passano alcuni minuti e arriva il mio turno (non per la biopsia purtroppo). Mi portano dentro, e dopo aver cercato invano qualcosa di morbido su cui stendermi, decidiamo che la cosa migliore sia rimanere in carrozzina. A patto che guardi dalla parte opposta per non rischiare svenimenti. Niente di più semplice, figuratevi se guardo mentre mi affettano come un manzo. L'operazione, compresa l'anestesia locale, dura venti minuti. Bisturi, pinza coagulante, scalpellino e martello. Si scalpello e martello, neanche fossimo in cantiere. Mi fasciano tipo guantone da pugile, lasciando solo il pollice fuori. Non mi sento male, forse perchè non ho visto niente ancora. Dopo cinque giorni torno in ospedale per la prima medicazione. Mi accoglie una giovane dottoressa che inizia a togliermi il guantone. Sto morendo di curiosità e, allo stesso tempo, temo la mia reazione. Piano piano arriviamo alle ultime garze appiccicate dal sangue secco. Ho la visuale coperta dalla sua mano e dal dorso della mia, ma per ora non lascia che la giri. «La tenga così», mi dice e si allontana un secondo. Porto la mano davanti agli occhi. La vista dei punti un po' mi sciocca. Penso immediatamente ai film horror, con le peggiori aberrazioni della cucitura grossolana di arti, facce, occhi e quant'altro. La giovane dottoressa acchiappa di nuovo la mano:«Mettila qui dai».
Scoppio a ridere istericamente. Lei mi guarda perplessa. Entra la professoressa e alla vista del dito si compiace tutta:«Hai visto che bello?, guarda che bel lavoretto, sei contento? non c'è più infezione, sono proprio soddisfatta». Sembra una bambina felice col suo nuovo giocattolo. La passione del resto fa quest'effetto a tutte le età. Io a essere contento proprio non ci riesco. Lo capisco e so di aver agito in modo razionale e ponderato. Ma, ora che la fasciatura non nasconde più l'assenza, ogni tanto sento un vuoto allo stomaco e gli occhi mi si riempiono di lacrime. E' solo una questione d'abitudine. E col tempo, ci si abitua a tutto.

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