Ieri sera sono stato al teatro Ambra Jovinelli per assistere al concerto del mio amico Niccolò Fabi. Un concerto che si preannunciava molto particolare perché eseguito da solista, senza l’appoggio della band. Si è sempre titubanti quando si tratta di questo tipo di concerti. Non è facile tenere la giusta tensione per tutta la durata della performance, molto spesso si sente la mancanza degli altri strumenti e, inevitabilmente, si cade nella noia. Il teatro è colmo di gente e il fatto che a esibirsi sia una persona a cui voglio bene, mi incute un po’ di paura. Non voglio vedere volti delusi o annoiati, mi farebbe male. Al contrario, risulterà essere uno di quei concerti che rimangono saldati nell’anima e nel cuore per sempre; quelli che quando ci ripensi, si ripresentano vividi con immagini, colori, profumi, sogni, volti, sorrisi, lacrime, gesti come se non avessero mai fine. Ma andiamo per gradi.
Arrivo al teatro in compagnia di Giulia (amica/sorella) e incontriamo subito Shirin (amica quasi sorella), la compagna di Niccolò, scintillante nel suo meraviglioso outfit di paillettes. Mi consegna il pass e si dilegua presa dai mille impegni pre concerto. Ci uniamo al resto del nutrito gruppo di amici presenti e, dopo un aperitivo a base di campari e biscottini salati al peperoncino – in realtà somigliano ai croccantini dei miei cani, infatti li mangio solo io – entriamo in teatro. I posti sono tutti vicini dietro l’ultima fila su una sorta di palchetto rialzato, vicino all’entrata. In questo caso sono il fortunato possessore di una ‘poltrona mobile’, quindi si presume che possa stare un po’ dove mi pare. Arriva subito un’addetta ai posti per dirmi che mi devo spostare più giù (si presume, appunto), sul lato corridoio destro per intenderci, per ragioni di sicurezza:
«Sa in caso di incendio, intralcerebbe la strada».
Il corridoio è stretto, mentre io sono nell’angolo vicino al muro di una piazza d’armi. Lo faccio presente:
«Mi sa che rischio di intralciare più li che qui, e vorrei vedere il concerto con i miei amici»
«Mi dispiace, ordini della direttrice»
«Ci parlo io con la direttrice, dov’è?»
«Un momento».
Alla fine grazie alla mediazione pacifica di un amico, senza le mie ormai famose piazzate, rimango dove sono. Le luci si spengono e si apre il sipario.
Luci soffuse su una scenografia fatta di: un piccolo divano, un’abajour, due chitarre acustiche (una dodici corde), una semiacustica, un piccolo amplificatore su un mobiletto, uno specchio, una tastiera con seggiolino bianco, una tastierina su una lampada bluastra, tre microfoni, un tamburello con pedale da grancassa incorporato e due palloncini che fluttuano in aria legati al palco.
Entra Niccolò sotto uno scrosciante applauso e prende parola. Prima spiegando quanto sia difficile per un cantautore romano esibirsi nella sua città, per quanto si cerchi di renderlo un concerto come gli altri, non lo è. Lo paragona al derby calcistico tra Roma e Lazio: per quanto gli allenatori si sforzino di farlo passare come una normale partita di campionato, sappiamo tutti che non lo è (mai paragone fu più azzeccato). Poi introduce lo show che vuole essere un viaggio, un affaccio sulla scatola teatrale con le sue regole e le sue libertà, un racconto con la sua linea narrativa. E spera che ci lasceremo condurre in questo mondo privo di barriere e inibizioni.
Inizia il concerto.
Dopo il primo pezzo di scioglimento psicofisico dall’una e dall’altra parte, almeno per quanto mi riguarda, ha inizio un percorso su una strada sconosciuta ma accogliente, sulle prime pagine di un romanzo che ti rapisce, su una rappresentazione teatrale fatta di gesti e movimenti accattivanti. Un meraviglioso connubio di musica, poesia, teatro, sensazioni, pensieri, amore, libertà. La band viene sostituita da loop creati ad arte sul momento, che accompagnano i ritornelli di alcune canzoni. Il fatto che non ci sia la rende ancora più presente, come le persone di cui senti più forte presenza proprio quando non ci sono (sagge parole di Niccolò). Tra un pezzo e l’altro, a intervalli non regolari, Niccolò toglie un oggetto sempre accompagnando il movimento con una musica e lo congeda con dei gesti come se fosse un ospite dopo la sua performance. La gente applaude e capisce. Inizia ad affezionarsi agli oggetti, canta le canzoni. Anche gli strumenti vengono omaggiati da gesti d’entrata e d’uscita come fossero i membri del gruppo, e lo sono. Dopo un’ora e mezza di concerto, passata come un minuto, non mi sento sazio. E neanche il pubblico. L’ultimo oggetto a lasciare il palco è il tamburello/grancassa. E’ qui che la magia prende forma: la gente grida un no corale. Un no che significa non finire questo viaggio, non chiudere il libro, non abbassare il sipario! No! Vogliamo continuare!
Per il gran finale scandito dal famoso pezzo di Mina ‘Parole Parole’, rimangono sul palco Niccolò, la sua chitarra acustica e Lulù sottoforma di palloncini. I prolungati applausi fanno il resto.
Pochi giorni prima del concerto ho incontrato Niccolò e abbiamo parlato dello spettacolo. Aveva paura che l’impegno nella parte ‘meccanica’ (loops, vari strumenti, scenografia) avrebbe tolto profondità e poesia all’interpretazione. Ti assicuro amico mio che, al contrario, ne ha aggiunta e ha lasciato il segno.
E’ stato un bellissimo viaggio. Grazie Niccolò, davvero.
MEGLIO NON CHIEDERE
4 settimane fa
2 commenti:
ho letto avidamente e un po' è come se ci fossi stata anch'io (è il tuo dono speciale, scusa se mi ripeto)
Grazie Laura!
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